mercoledì 18 luglio 2018

India Nord Est e Kumbh Mela 2013

27 gennaio 2013. Delhi – Dibrugarh – Sibsagar
Dopo un viaggio di due giorni con sosta a Delhi, arriviamo all’aeroporto di Dibrugarh, nelremoto Assam settentrionale. Il clima è piacevole, leggermente fresco. Ci attende al parcheggio una Tata Sumo, guidata da un ragazzo assamese secco, Kamal, che non parlainglese e che tra l’altro quasi non parla affatto. Con lui c’è anche la nostra guida, Daniel,un 23enne nishi dell’Arunachal Pradesh, più piccolo e più in carne, con un tatuaggiotribale sulla mano. E’ molto sveglio, parla correntemente undici lingue, tra cui l’inglese, l’hindi, l’assamese, il nishi, l’apatani, il naga e altre lingue tribali. Saliamo in auto senza tanti convenevoli, e partiamo in direzione Sibsagar. L’Assam è costellato di vaste piantagioni di te (siamo però nel periodo invernale, molte di esse sono secche), e disseminato di molte fabbriche di mattoni e cemento con le loro ciminiere antiche. Per non farci dimenticare che siamo comunque in India, nella prima cittadina che attraversiamo, un anziano signore è sdraiato beatamente in mezzo a un trafficatissimo incrocio, con le auto che devono sterzare per non investirlo. Per strada ci sono diversi bengalesi (di religione musulmana) che vendono il pesce del Brahmaputra, che scorre non distante. Dopo un viaggio di tre ore verso sud ovest arriviamo a Sibsagar al tramonto. Senza tante cerimonie Daniel ci scarica all’Hotel, un albergo piuttosto male inarnese, senza acqua calda. La cittadina è solo uno snodo viario per il Nagaland. Di rilievo un tempio dedicato a Shiva (pare sia il tempio più alto del genere in India, ma che palle questi record), dove centinaia di persone pregano sopra un sacro pozzo, chi versandovi del latte, chi percorrendone il bordo in senso orario, chi antiorario, chi accendendo degli incensi, chi suonando delle campanelle, chi offrendo foglie o fiori. All’interno del tempiole caprette brucano allegramente i doni dei pellegrini. Noi entriamo a piedi scalzi camminando sugli escrementi degli animali. Dietro al tempio una cisterna d’acquagrande come un lago costruita dagli Ahom (la dinastia che regnò sull’Assam secoli fa fino all’Ottocento), spiega il nome della città (che significa l’acqua di Shiva). Pare che sulfondo ci siano dei tesori gettati dagli inglesi in fuga dopo l’indipendenza dell’India. Il cameriere dell’albergo che assomiglia vagamente all’extraterrestre di Avanti un altro ci chiede se vogliamo un the, ma non capiamo se dobbiamo pagarlo subito o no (“Howmuch? No money, no money. 30 rupees”). Nel bel ristorante dove consumiamo un buon pollo tandoori, Silvia ripercorre la sua disavventura all’aeroporto di Delhi la mattina. In India i controlli di frontiera avvengono per le donne dentro un gabbiottino nascosto da una tenda. Qui la poliziotta le parla indicandole la cintura. Silvia, in piedi sopra una pedana, non capisce e si agita, e allora cala i pantaloni sbattendo le mutande in faccia alla poliziotta che ride di gusto. Il letto della nostra stanza, sporchissimo, ci suggerisce di usare il sacco a pelo, solo che Silvia ha lasciato il suo in auto, il che ci costringe a dormire insaccati dentro uno solo. Ma per fortuna fa freddo.

28 gennaio. Sibsagar – Mon
L’indomani ci dirigiamo decisamente verso est, verso il poverissimo Nagaland. Per strada sfrecciano tanti veicoli con gente urlante e bandiere in mano: si avvicinano le elezioni amministrative in Assam, ed è in corso la campagna elettorale. Si fronteggiano il partito del congresso, il BJP induista, il partito comunista e altre formazioni minori. A pranzo Daniel ci cattura con i racconti della sua terra, l’Arunachal Pradesh, del suo odio per i cinesi, e dell’esistenza di un misterioso popolo di schiavi che abita le zone pedemontane dell’Himalaya orientale ai confini con il Tibet. Nei pochi giorni durante l’anno in cui i rispettivi governi tollerano uno scambio mercantile transfrontaliero, le popolazioni nishi fanno varcare il confine a queste persone, a loro fedelissime. Data la pericolosità della situazione (in Cina gli indiani che passano la frontiera possono essere eliminati con poche cerimonie dai soldati di Pechino), i nishi, popolo di guerrieri ma non di stupidi, fanno così affrontare agli schiavi le insidie del viaggio. Per farci capire il clima che si respira, ci racconta che negli anni successivi all’invasione cinese (1962), suo nonno è più volte entrato in Tibet clandestinamente uccidendo almeno cinque militari cinesi. “Devi uccidere per non essere ucciso”, si giustifica. Noi lo sommergiamo didomande su questi schiavi, e lui ci spiega che si tratta di una popolazione senza nome, che vive in zone di montagna dove non ci sono strade, raggiungibili solo con trekking di più giorni. Dopo un paio d’ore, il verde e piatto Assam lascia improvvisamente il posto alle colline del Nagaland, la terra delle tribù Naga. Qui la gente è molto povera (il 60% della popolazione vive sotto il livello di povertà) e la religione professata è il cristianesimo (cattolico e protestante). La conformazione del territorio rende difficile il popolamento di questa terra. Le case sono solo povere capanne, e le strade sono in una condizione orripilante. Appena varcato il confine ci registriamo al posto di polizia. In una spelonca sospesa sul pendio ai bordi della strada, consumiamo un the masala (con latte, aromatizzato con zenzero e cannella), diffusissimo in tutto il Nord Est. Le case sono tutte costruite su pali di bambù, alti sopra i pendii boscosi. Gli uomini Konyak, bassi e magri, camminano per strada con il temutissimo Dao in cintura, il machete usato nei millenni per tagliare teste umane, alberi e per uccidere gli animali. L’ultima testa mozzata da questi guerrieri è rotolata negli anni sessanta del secolo scorso, e più grazie alla diffusione del cristianesimo che per un divieto posto dalla legge. Dopo uno scomodissimo viaggio di diverse ore su terreno sconnesso, arriviamo in un posto che sembra l’avamposto del nulla, la collinare città di Mon. Tutto è un po’ dissestato e polveroso, come il nostro albergo. Il decantato mercato della città si rivela essere solo un insieme di quattro negozietti che vendono frutta e pesce essiccato. La sera a cena Daniel si emoziona parlandoci di Gandhi, ma non in un senso positivo: lo ritiene responsabile della morte inutile di tantissime persone che si sono battute per l’indipendenza dell’India mentre lui esortava ad arrendersi. Ci dice che molti lo adorano, ma che la verità amara è un’altra. Si tratta – sostiene – di un avvocato bugiardo che per mettersi in luce ha ritardato il processo di liberazione del paese. Di Madre Teresa dice invece che berrebbe l’acqua con la quale si lavava i piedi. Di notte viene sospesa la corrente elettrica, e così, senza luce e senza acqua calda ci addormentiamo alla luce fioca di una candelina.

29 gennaio. Mon – Longwa – Tangnyu – Mon
Il giorno seguente ci aspetta una lunga strada sterrata tutta saliscendi fino al remoto villaggio di Longwa, che sorge proprio sul crinale dove passa il confine tra India e Myanmar. Curiosamente la long house, il luogo di incontro e di socialità tra gli uomini, vietata alle donne, è proprio divisa in due fra i due stati. Non ci sono controlli di dogana, anche se poco distante c’è una caserma di fucilieri dell’Assam che sorveglia il confine. Dentro la long house, costruita di legno e paglia, un gruppo di uomini (tra cui il figlio del capo villaggio) bighellona al buio intorno al fuoco. Per festeggiare il nostro arrivo preparano dell’oppio da fumare, di cui vanno pazzi. La preparazione è meticolosa: scaldano su un cucchiaio il succo di papavero, lo mescolano con delle erbe, lo inseriscono in una pipetta che accendono. Facciamo anche un paio di tiri, senza però provare nulla di particolare (Silvia inizia a ridere, ma nulla più). Altro oppio viene mescolato con del te e bevuto come una tisana. Leggiamo da qualche parte che gli uomini Konyak sono diventati piuttosto pigri e indolenti a causa dell’assunzione di questa sostanza. E in effetti sembra che passino tutta la giornata intorno al fuoco nulla facenti. In altre case troviamo gente più laboriosa intenta a costruire fucili. I nonni di questi artigiani hanno costruito delle copie dei fucili dell’esercito britannico durante la seconda guerra mondiale avendoli potuto osservare da vicino: poi hanno tramandato queste conoscenze e ora i nipoti riescono a costruirne di identici perfettamente funzionanti, ottimi per la caccia. Le donne che tornano dai campi e dai boschi cariche di legna non amano essere fotografate e ci minacciano con bastoni e sguardi ostili; Daniel ci aveva avvisato infatti che la povertà qui è vissuta con vergogna. Alcuni anziani uomini, dallo sguardo dolce e a dire il vero un po’effeminato, ci mostrano sul corpo raggrinzito gli antichi tatuaggi dei guerrieri, che sono delle semplici linee. Per tatuarsi utilizzano colori vegetali e punte affilate di legno. Oziosamente chiedo quante teste abbiano tagliato e vengo a sapere con un brivido che uno di essi in gioventù ne ha tagliate “a centinaia”. Questa loro antica abitudine ha consentito di mantenere lontani gli intrusi e i nemici, e ha contribuito a isolare questa popolazione dal resto del mondo. Alcuni di loro hanno i denti acuminati e neri, ricoperti di fuliggine, per preservarli dalle infezioni e dagli ascessi. Uno di loro digrigna i denti di pece davanti a Silvia che sobbalza. Ci sono anche delle donne che ci mostrano dei tatuaggi sulle ginocchia. I Konyak sono ottimi artigiani, e uno dei temi più ricorrenti nelle loro creazioni di legno è il teschio, sia esso umano o di scimmia. Acquistiamo un buffo copricapo maschile a cono e qualche braccialetto. Dopo altre ore di auto lungo crinali esposti e colline raggiungiamo il villaggio di Tangnyu. Spontanei in tutto questo territorio crescono cespugli di Stelle di Natale. Oltre alla casa del capo visitiamo la chiesa,veramente enorme, costruita sempre in paglia e bambù. Accanto a essa c’è la tomba del precedente capo villaggio. Nei pressi della Long House ci sono una decina di teneri anziani ex taglia teste che costruiscono cestini. Scattiamo loro delle polaroid, che apprezzano tantissimo. Silvia, Dio solo sa perché, per far comparire prima la foto inizia a scuoterla con la mano: tutti i Konyak la imiteranno, pensando che questo gesto abbia un’utilità, che invece assolutamente non ha. Un vecchio guerriero si offende perché non scattiamo la polaroid anche a lui, e Silvia si domanda come potesse essere un temibile taglia teste un vecchietto che ora fa i capricci per una foto. Uno stuolo di bambini ci accerchia e ci segue per tutto il villaggio. Alcuni di loro ci gridano “Praise the Lord”, altri ci minacciano con una pistola giocattolo, altri ci seguono sghignazzando. Per loro, abituati al nulla noioso di queste lande sperdute, siamo un formidabile passa tempo. Conosciamo anche un paio di persone che dichiarano di essere il capo villaggio, e Daniel vedendomi perplesso spiega che tutti i familiari del capo villaggio possono fregiarsi del titolo. Per dovere di ospitalità entriamo anche nella casa del capo (quello vero) e lo ascoltiamo per un’ora intera parlare nella sua lingua di chissà che cosa. Daniel gli dona delle bottiglie di alcolici, comprate il giorno prima a Sibsagar, per ringraziarlo dell’ospitalità.

30 gennaio. Mon – Dibrugarh
Al sorgere del sole visitiamo il mercato della carne, appena fuori Mon, dove gli animali vengono tagliati a pezzi ancora caldi di vita e fumanti. Il tutto in mezzo alla polvere e ai cani, mentre i clienti affollano i banchetti. A colazione scopriamo che sono arrivati degli ospiti francesi, che si fermano nel nostro stesso hotel. Il viaggio di ritorno è lungo, perché dobbiamo arrivare a Dibrugarh, passando ancora da Sibsagar. Con sorpresa scopriamo che il cantante preferito da Daniel è Fabrizio De Andrè, di cui ascoltiamo in auto alcuni concerti dal vivo. Pare che glielo abbia fatto conoscere una ragazza italiana di Montebelluna di cui ci parla spesso (“è mia madre adottiva”, ci dice), ma lui stesso tempo fa ha fatto da guida al figlio di De Andrè, Cristiano, venuto quaggiù per il festival musicale di Hornbill a Kohima. “Non capisco le parole, ma apprezzo tantissimo la sua voce” ci dice. In Assam sono in corso le elezioni, in molti luoghi si radunano miriadi di persone per votare. Daniel ci confessa candidamente che la gente va a votare solo in cambio di denaro, non bastando più le vecchie promesse, regolarmente disattese, che un tempo facevano i politici per muovere al voto. Qualche giorno dopo la nostra partenza, verremo a sapere che in qualche caso ci sono stati degli scontri durante le operazioni di voto, con morti e feriti, con protagoniste le forze di liberazione dell’Assam, che lo vorrebbero indipendente da Delhi. Lungo la strada tra Sibsagar e Dibrugarh ci fermiamo in un villaggio spopolato (sono tutti a votare) di una tribù assamese. Veniamo ospitati da un’affabile famigliola, che ci offre ogni ben di dio nella sua casetta, dolcetti e biscotti, ci fanno vedere come tessono i vestiti, e vestono anche Silvia con una specie di sari a due pezzi tessuto da loro. La giovane signora che le veste non rinuncia a darle alla fine una bella pacca sul sedere ridendo di gusto. Chiediamo anche se possiamo comprare dei tessuti, ma quelli che scegliamo in mezzo al campionario che ci viene mostrato non sono in vendita, perché “servono a loro”. Ripieghiamo allora su una seconda scelta, fra lazzi e risa. Arriviamo a Dibrugarh all’imbrunire: il nostro hotel è sorprendentemente moderno e pulito, con il bagno curiosamente separato con un semplice vetro dal resto della stanza, per permettere di guardare la TV dal luogo di comodo. Visitiamo il caotico mercato, con ogni tipo di frutta e verdura esotica, con pesci e anguille del Brahmaputra che agonizzano in secchi d’acqua. Compriamo la varietà orthodox del the assamese, la più nota, e un the verde biologico.

31 gennaio. Dibrugarh – Ziro
Partiamo presto la mattina per poter prendere il traghetto sul grande Brahmaputra. In realtà esso dista almeno un paio d’ore dalla città: e quando, dopo parecchie piantagioni di te, il paesaggio di argini e acquitrini pare preludere al fiume, dobbiamo ancora attraversare chilometri di terreni sabbiosi prima di giungere sulle sue rive. Qui il fiume è così largo che a mala pena s’intravede la riva opposta. Sulle sponde ferve tutta una vita fluviale fatta di barche ormeggiate, barconi spiaggiati, camion che scaricano sacchi di riso, animali che vagolano, traghetti che arrivano e partono col loro carico umano, tende dove vengono venduti te e generi alimentari, auto che attendono di imbarcarsi. In lontananza un grande ponte in costruzione, con almeno una dozzina di piloni piantati nelle acque. L’attesa è lunga, almeno altre due ore, e Silvia la inganna fotografando all’impazzata i salariati che scaricano le merci, saltando anche sopra un camion. La traversata dura mezz’ora, ed è l’unico modo per raggiungere la sponda nord da qui, perché il primo ponte si trova a più di 50 km a valle. Il Brahmaputra prende questo nome appena il fiume Siang entra in Assam dall’Arunachal, unendosi ad altri due fiumi. Prima ancora, nel Tibet, il suo nome è Sangpo. Da notare che i traghetti possono portare al massimo tre auto (in realtà sono quattro, ben strette tra loro), che vengono caricate facendole salire su delle assi di legno alquanto instabili. Raggiunta l’altra riva, riprendiamo il percorso verso sud ovest. L’Arunachal ci appare in lontananza con le sue montagne azzurrine. Attraversiamo un paio di grandi fiumi che scendono dalle vette himalayane per gettarsi nel Brahmaputra. Quando ci fermiamo per la pausa pranzo, veniamo raggiunti dal fratello di Daniel, un ragazzo con i capelli cortissimi che lavora in marina a Singapore, “molto generoso ma con le mani bucate (quanto guadagna, tanto spende)”, ci dice. Ha già l’Iphone 5, anche se gli è già caduto per terra ed è tutto ammaccato. Solo dopo, quando siamo già in auto, Daniel ci dirà che in realtà non è suo fratello ma un suo amico fraterno: da queste parti si chiamano tutti fratelli, cugini, figli, mamme, ma non è detto che ciò corrisponda a legami di sangue. Dopo ancora un’ora di strada entriamo finalmente nell’Arunachal Pradesh, proprio dove la piana assamese s’interrompe bruscamente per dare spazio alle colline ricoperte di foreste. Ci accolgono molte caserme e militari che marciano: siamo in uno stato di confine, molto militarizzato e anche per questo le strade sono tenute molto bene. Questo territorio è rivendicato dalla Cina, e su google maps appare come territorio di Pechino, con sommo disappunto di Daniel. La sensazione è quella di spostarci di pochi km in linea d’aria ma di macinarne tantissimi sulla strada che disegna tutte le curve altimetriche di questo difficile territorio. È grande come tutto il nord est italiano, ma gli abitanti sono solo poco più di un milione. Le colline sembrano simili alle nostre, ma guardando da vicino si capisce che la vegetazione che le ricopre non è proprio nostrana: banani, palme e strane foglie larghe compongono una vera foresta tropicale. Dopo un milione di curve ci fermiamoall’imbrunire nel paesino di Potin, quattro baracche, per consumare un po’ di te. Manca ancora molto a Ziro, dove arriveremo a notte fonda: la temperatura si fa’ decisamente fresca, siamo a più di mille metri. Il cielo stellato, senza traccia di inquinamento luminoso, è fenomenale, vediamo la Via Lattea e tutte le stelle, anche quelle meno lucenti. Daniel mi afferra il cellulare e comincia a girare un comico video dove sostiene che siamo spaventati dalla strada stretta, infreddoliti e affamati. Alla fine arriviamo alla meta, un grazioso cottage gestito da una famigliola Apatani. Manca la corrente elettrica, ed è ancora più piacevole scaldarci al fuoco mentre ci servono un the caldo e una dignitosa cenetta a base di riso, del, verdure. La famiglia è composta da un numero imprecisato di figli (ma due in particolare ci rimangono impressi, una bimba di otto anni, Mimù, e un bimbo di cinque, che balla benissimo al ritmo di musiche tribali), dalla signora (il marito è fuori per lavoro), e da due "schiavi", un uomo e una donna con bambino. L’uomo è umile e servile oltre ogni dire. Con noi anche Daniel, che parla continuamente con gli ospiti senza sosta, e Kamal, che non dice una parola.

febbraio. Ziro
Alla mattina riusciamo finalmente a scorgere i dintorni del posto: siamo in una casetta con tetto a punta in un contesto montano, a circa mezz’ora d’auto dal centro abitato. La famigliola coltiva kiwi, cavolfiori, pomodori e alleva conigli. Dietro la casa abita in una capanna la nonna, che veste alla maniera tradizionale e indossa i tappi nasali. Daniel ci avvisa che mentre i Konyak esibiscono fieri i loro tatuaggi e i loro corpi, gli Apatani si vergognano di essi. Infatti, come accade talvolta nei mondi tribali, i tappi nasali e i tatuaggi venivano praticati per abbruttire le donne e renderle meno appetibili agli occhi dei predoni delle tribù vicine, soprattutto i Nishi. Loro si sentono brutte e non amano essere fotografate. Per questo occorre prima di tutto entrare in confidenza con loro e ottenere la loro fiducia. La giornata è dedicata alla visita di due villaggi apatani nella valle di Ziro. Il primo che visitiamo è anche il più grande, Hong. Le case Apatani (dette nam), tutte in legno, sono da sempre costruite attaccate l’una all’altra per motivi di sicurezza: in caso di attacco da parte di tribù nemiche era più facile difendersi. Questa eccessiva vicinanza però è pericolosa in caso di incendio, poiché da una casa le fiamme si possono facilmente propagare a tutto il villaggio, e spesso così è accaduto. Per questo motivo i granai sono costruiti lontani dall’abitato. Daniel ci porta attraverso un sentiero nel bosco, bordato da entrambi i lati da palizzate ben curate, fino a una piccola radura solitaria, un posto incredibile, con decine e decine di altarini (chiamati agiang). Ce n’è uno per ogni abitante del villaggio, e sono costruiti con rami, piume, gusci di uova. Accanto a essi vengono sacrificati animali agli spiriti, per propiziarseli. Il periodo dei sacrifici è il mese di marzo, ma durante tutto l’anno ne avvengono, su altri altarini più piccoli costruiti fuori dalla porta di ciascuna casa. Gli Apatani conoscono il mondo moderno, sanno che ci sono i medici e gli ospedali, ma quando si ammalano preferiscono fare dei sacrifici e sperare nella guarigione. L’unica persona che può direttamente entrare in contatto con gli spiriti è il sacerdote sciamano, e non solo con gli spiriti buoni. Lui riesce a leggere le loro risposte guardando il tuorlo dell’uovo. Non riusciamo a incontrarne uno perché vivono nascosti, circondati da un’aura di negatività: spesso sono malati o vittime di tragedie personali, perché – ci spiega Daniel – tenendo lontana la negatività dal villaggio la portano su di loro. Per questo motivo è meglio stare alla lontana. Silvia ed io decidiamo di visitare il villaggio separati, per fare esperienze diverse. Silvia viene invitata in una casa dove stanno preparando del cibo, e tra una foto e una risata finisce per mettersi a cucinare con le donne. Io vagolo tra le viuzze. Il villaggio è situato in un pianoro coltivato a riso, tutto circondato da colline boscose. Appena finiscono le case cominciano subito i campi coltivati, dove lavorano delle donne. Siamo nella stagione secca, bisogna ricostruire i bordi, le canalette, dissodare il terreno. Il lavoro è duro e e il luogo è fangoso, e chissà perché tocca solo alle donne. Non si vedono uomini in giro, nemmeno nelle case: probabilmente sono nei boschi vicini a spaccare legna. Le giovani donne apatani ormai non portano più tatuaggi e tappi nasali, è un’usanza destinata a morire insieme alle vecchie generazioni. Imparate le frasi essenziali (aya doha, ciao; payàra pachò, grazie), chiamo Silvia e decidiamo di passare del tempo con le donne al lavoro. All’inizio sono diffidenti, ma dopo un po’ che le osserviamo e sorridiamo, accettano la nostra presenza e ci chiedono di portar loro da bere, e non intendono certo acqua, bensì il liquore locale (oò, una specie di distillato giallo di infima qualità), che vado a comprare in un gabbiottino in paese per trenta rupie. Tutte contente condividono con noi la pausa pranzo, a base di riso, zucca, pollo (dicono...), una verdura che cresce nel bosco e del te. Prima di darci da mangiare pretendono però che ci laviamo le mani. Noi non rifiutiamo il cibo, per non essere scortesi, ma non lo portiamo alla bocca. Nel clima gioviale una di loro inizia a cantare e a ballare, e Silvia per non essere da meno imita la gallina, facendole ridere. Dopo pranzo loro tornano al lavoro e noi continuiamo la visita. Al centro del villaggio lungo la via principale (non ci sono piazze), sorge il lapin, una sorta di piattaforma con un tetto, dove avvengono riunioni o semplicemente si chiacchiera; qua e là si ergono i babo, dei pali alti che ora hanno solo una funzione decorativa, mentre nel passato erano delle piattaforme da trapezista dove i ragazzi si arrampicavano e poi rimbalzavano allegri su dei cavi sospesi. Esistono dei filmati storici degli anni ’60 girati da occidentali al loro primo arrivo in queste terre, dove si vedono bambini che continuano a rimbalzare festosamente come degli acrobati. Dopo un pranzo a base di noodles scotti e piccantissimi che consumiamo in un hotel disabitato con vista sulla valle di Ziro, il secondo villaggio che visitiamo è Hari, meno grande ma ugualmente fitto di case, abbarbicate sul dolce pendio di una collina. Qui Silvia incontra una vecchina che le dona dell’insalata, le fa vedere una croce che porta al collo, e pare darle anche una benedizione. Incontriamo anche una coppia di anziani che ci regalano del riso e si fanno fotografare. Ma gli incontri più belli sono con alcune anziane donne sedute fuori dall’uscio di casa, veramente splendide con i loro tappi e i loro tatuaggi. Il fatto che salutiamo e ringraziamo nella loro lingua è fonte di sorpresa e ammirazione. Scattiamo loro delle polaroid, cosa che sembra dar loro molto piacere. Prima dell’imbrunire, mentre tutte le donne rientrano dai campi, facciamo in tempo a entrare in una casa dove ci accoglie una giovane donna con bimbo. Come tutte le case, anche questa è buia con il focolare in mezzo, e c’è sempre pronta una tazza di te caldo. Rientriamo poi nel cottage della nostra famiglia ospitante: questa sera c’è la corrente elettrica, e il tutto perde un po’di poesia. È presente anche il marito, un gioviale ingegnere idraulico che lavora per lo Stato. Ma io e Silvia siamo più attratti dallo schiavo, sempre gentilissimo e umile, e trattato con freddezza dai padroni di casa. Mentre attendiamo la cena attorno al fuoco, Silvia rischia la gaffe: chiama la gattina con il nome della bambina, Mimù, ma per fortuna nessuno pare accorgersene. Dopo cena ci ritiriamo nella nostra stanzetta.

2 febbraio. Ziro
Oggi è giornata grigia, e cade qualche goccia d’acqua. Scendiamo ancora nella valle di Ziro, per visitare altri due villaggi. Arriviamo a Hija mentre le donne vanno al lavoro neicampi. In fondo al villaggio c’è una piccola radura coltivata a riso. La processione diqueste donne piccole e laboriose che camminano con le loro zappe ci fa venire in mente la scena dei nani di Biancaneve. Le seguiamo. A momenti mi ammazzo cadendo in una buca sul sentiero. In tasca ho una bottiglietta di oo, da utilizzare per momenti conviviali. Le signore si rivelano però meno simpatiche di quelle di Hong: alcune particolarmente bellicose intuiscono che ho da bere e cercano di strapparmi dalla tasca la bottiglia strattonandomi, altre trattengono Silvia con la forza fino a che non sgancio 100 rupie di riscatto. Tutto sommato per loro si tratta di un divertimento e di un modo di evasionedalla dura giornata lavorativa. C’è il tempo per incontrare una donna pazzerella ma sorridente, a cui doniamo una polaroid, che vive di carità e dorme ogni sera in una casadiversa, da quando il marito e i figli l’hanno abbandonata. Come sempre è difficile trovare uomini in giro, pare che siano tutti nei boschi, a fare cosa solo Iddio lo sa. Come tutti i villaggi apatani, anche questo ha il suo lapin, i suoi babo, i suoi negozietti che vendono caramelle, liquori e cianfrusaglie varie. Troviamo alcuni ragazzi intenti a costruire mattoni. Daniel durante le nostre visite si apparta e preferisce non interagire più di tanto con la popolazione, e ci spiega che gli apatani considerano i Nishi come degli orchi, degli aggressori. E in effetti a prima vista è evidente che i Nishi abbiano il sangue dei guerrieri, siano bellicosi, mentre gli apatani sono lavoratori tranquilli e pacifici, quasi timidi.Inoltre bisogna ricordare che l’abitudine di rendere orribili le donne è nata proprio perevitare i ratti da parte dei Nishi. Il tempo peggiora, e veniamo sorpresi dalla pioggiadurante la visita dell’ultimo villaggio, forse Dutto. Per questo entriamo in una casa, chebrulica di persone che mangiano, bevono e giocano a carte. Il padrone di casa, con un inglese comprensibile, ci racconta che sta festeggiando la costruzione della casa e ci invita a prendere il te con loro. Da queste parti la costruzione di una casa nuova è un evento sociale che occupa tutta la cerchia di amici e parenti. Terminate le visite ai villaggi ci trasferiamo nel capoluogo, Ziro, a vedere il mercato. Qui i polli vengono pesati con vecchie bilance a contrappesi e venduti vivi a donne apatani, ma anche a musulmani assamesi o bengalesi. Al crepuscolo, mancando la corrente elettrica, è tutto un accendere candele sopra i banchi, con un effetto sorprendente. Chi vende frutta, vestiti, chi lavora sulla macchina da cucire: tutti alla luce fioca di una candela. Alcune donne si scaldano con un fuocherello improvvisato, discutendo animatamente su quale sia la migliore religione cristiana: chi dice la cattolica, chi dice la battista. Da queste parti, come in Nagaland, il cristianesimo è penetrato ma comunque non ha sconfitto del tutto la religione tradizionale, qui chiamata donyi polo, che vuol dire sole luna. E in effetti abbiamo avuto prova di ciò: ogni villaggio ha il suo sciamano, ma ci sono anche tante croci oltre a tanti altari. Daniel ci parla di sua madre, che è una specie di santona che ha sempre lavorato per difendere le donne sole o vittime di violenza, fondando una casa accoglienza vicino alla capitale Itanagar. Ha anche fondato una sua chiesa, e l’ha volutachiamare semplicemente cristiana, senza specificazioni, perché “Gesù è uno solo”. Perl’ultima cena presso la famiglia ci concediamo qualche birra da bere insieme ad autista eguida.

3 febbraio. Ziro - Koloriang
Oggi partiamo per l’ignoto, per una regione remota che non viene mai visitata dagli stranieri, abitata dai Nishi. Il percorso disegna tutti i rilievi delle colline, attraversa incantevoli vallècole solitarie coltivate a riso. Anche i Nishi hanno i loro altari (yugang) fatti di rami tagliati, più imponenti di quelli apatani, eretti fuori dalle case (shangnam) che sono costruite come delle palafitte sui pendii scoscesi, sostenute da pali di bambù per proteggersi dai roditori. Qui Daniel è di casa, e dopo un paio d’ore di auto ci fafermare in uno spiazzo dove stanno costruendo una chiesa. Entriamo in una capanna lì vicina a consumare il pranzo con gli abitanti del luogo, pranzo fatto di riso e qualche verdura. È strana la sensazione di sedersi sul pavimento di bambù che lascia intravedere il pendio molti metri sotto. Gli abitanti sono tutte persone aiutate dalla mamma diDaniel, che dirige anche la costruzione della chiesa “cristiana”. Sono tutti affabili, e cicolpisce in particolare un ragazzo dall’aria vagamente bulla ma bonaria. Con lui, dice Daniel, “ho condiviso tutto”, qualche anno fa quando ha trascorso qui un periodo di lavoro; tutto “tranne il letto”. Lì per lì non capisco il riferimento, ma quando torniamo in auto per proseguire il viaggio ci spiega: “Il mio amico era omosessuale, ma ora grazie a mia madre che gli ha pagato una cura a base di ormoni a Delhi, ha risolto il suo problema ed è tornato normale”. La cosa la dice lunga sul pensiero che hanno da queste parti sulla diversità. La strada è ancora molto lunga, e mi sorge un sospetto guardando il programma: il giorno cinque è previsto lo spostamento da Koloriang a Tezpur in Assam. Facendo quattro conti della serva, sono minimo otto ore da Koloriang fino a Ziro, da Ziro al confine sono almeno 6, dal confine a Tezpur sono altre 6, per un totale di venti ore di auto, senza contare le soste. Chiedo di rivedere il programma, Daniel accoglie il suggerimento e propone di spezzare il trasferimento in due giorni, perdendo un giorno di visite ai villaggi. Non ci rimane che accettare, perché non sarebbe interesse di nessuno sobbarcarsi un viaggio di così tante ore di auto. Dopo ore e ore di scollinamenti, ormai al buio entriamo nella sperduta e povera Koloriang. La sensazione è proprio quella di essere nel nulla, sperduti tra valli e giungle, al freddo. Tentiamo di farci ospitare in una casa, dove ci offrono il te, ma alla fine optiamo per dei bungalow spartani. Daniel ci sconsiglia di girare per la cittadina, perché non sa come reagirebbero gli abitanti nel vederci. Siamo oltre modo stravolti dal viaggio. Il tutto è molto malandato, per non parlare dell’acqua calda assente, del bagno non funzionante, del materasso lurido, del freddo pungente. Daniel, spinto a pietà, ci offre due boule dell’acqua calda. La cuoca del bungalow invece si limita a commentare “Silvia è bella, Roberto è vecchio”. Non mi rimane che macerarmi nel sacco a pelo.

4 febbraio. Koloriang - Yumlam
Al mattino finalmente ci rendiamo conto di dove siamo. Siamo in una splendida vallata, solcata dal periglioso fiume Kurung, più alti della nebbia che aleggia sul fondo valle creando un effetto straniante. In giro ci sono maialini in cerca di cibo, bambini incuriositi, e persone che frequentano il mercato e che ci guardano anche loro molto sorpresi. Alcuni uomini indossano il copricapo tradizionale, ornato dal becco di hornbill, e portano un uncino che ferma uno chignon sopra la fronte. Lontani a nord siintravedono i ghiacciai dell’Himalaya, a segnare il confine con l’odiata Cina. L’aria è frizzante ma il sole la scalda un po’. Scendiamo ripercorrendo a ritroso la strada delgiorno prima fino a giungere al fondo valle, all’altezza del Kurung. Veniamo a sapere che alcuni danesi l’anno precedente lo hanno disceso in kajak, un’avventura oltremodopericolosa, dove è quasi impossibile non rimanere uccisi. Da lì risaliamo sulle colline, attraversando poveri villaggi di capanne. Via via che ci arrampichiamo sui tornanti, la catena himalayana si scopre sempre di più alla nostra vista, fino a che arriviamo a una sorta di spartiacque a 2000 mt, dove ci fermiamo; qui la vista si allarga su altri versanti immacolati. Alcuni uomini in giro per lavoro nel bosco ci chiedono, per prima cosa, cosa diavolo facciamo da quelle parti, e poi un passaggio in auto, per risparmiar loro ore e ore di cammino, a cui peraltro sono quotidianamente abituati. Uno di loro sale con il fucile. Ci fermiamo più in basso al villaggio di Yumlam. Il villaggio è piuttosto spopolato, donne e uomini sono fuori per il lavoro, ci sono solo bimbi e qualche anziano. Molti animali ciondolano oziosi, maiali, capre, cani, galline. Pranziamo in una capanna a base di noodles. Qui, per lavare pentole e piatti si usano allegramente le pozzanghere. Silvia inizia ad avere una strana luce negli occhi, e chiede a Daniel se ci possiamo fermare qui per la notte, ospiti di qualche famiglia. Siamo a tre ore di auto da Koloriang, senza valigie e senza vestiti di ricambio: si prospetta una bella avventura, ma Silvia non torna sui suoipassi nemmeno dopo le pacatissime osservazioni di Daniel. Tra l’altro non abbiamonemmeno la possibilità di avvisare il gestore del bungalow, che sicuramente si preoccuperà non vedendoci rientrare la sera. Silvia chiede di essere lasciata sola a esplorare il villaggio e a entrare in relazione con gli abitanti. Resterà delle ore a fare amicizia con una donna sorda (se ne accorgerà solo dopo diverso tempo) che lavora in casa, e con i suoi bimbi, che masticano rami di bambù. La signora le offre delle verdure, e Silvia finge di mangiarle e le fa invece cadere attraverso le intercapedini del pavimento fino al suolo, dove diventano cibo per i maialini. Poi lei sparisce in altre case, mentre io vagolo per il villaggio. Qualche giorno dopo dirà che sembravo, con il mio pile rosso, una sorta di facocero sperduto. Verso sera il villaggio si popola di nuovo. Un ragazzo con i capelli lunghi e il volto allungato ci parla dei racconti dei loro nonni, quando si spingevano alle pendici dell’Himalaya, dopo un viaggio a piedi di due giorni. Avevano scoperto una grotta gigantesca, piena di concrezioni e con un lago sotterraneo, che non poteva però essere visitato perché abitato da spiriti maligni. In quelle zone esistevano anche delle rane giganti, che la gente del posto cacciava. Più tardi troveremo lo stesso ragazzo a casa della sorda che le chiede dei soldi. Gli abitanti hanno ancora il tempo per qualche lavoro artigianale serale, chi pesta le verdure, chi taglia il legno, chi lavora a maglia, poi con il crepuscolo il villaggio si spopola, e in ogni casetta si accende il fuocherello e le famiglie cenano insieme. Gli ultimi a ritirarsi sono i bambini, che danno da mangiare ai maialini del bambù fermentato che li farà dormire. Anche noi ci ritiriamo nella nostra capanna, quella dove abbiamo pranzato. Daniel e Kamal ci daranno i loro sacchi a pelo per la notte, e loro, da bravi guerrieri, si arrangeranno alla bell’e meglio. Il capofamiglia che ci accoglie è solo con la sua bambina, la moglie è a Koloriang a sbrigare delle faccende. Per festeggiare ci comprano un pollo vivo da abbrustolire sul fuoco. Daniel lo prende in mano e lo uccide con un rituale tribale, senza tirargli il collo, ma semplicemente “fermandogli il cuore”. Improvvisamente, quando è ora di mangiare, la casa si popola di altri ospiti, tra cui uno sciamano con la gamba ferita (a conferma che queste persone hanno un’aura di negatività). Al termine del pasto il freddo monta, e gli spifferi si sentono anche da sotto il pavimento. Il fuoco rimane sempre acceso anche durante la notte, la qual cosa mi dà dei pensieri, essendo la casa tutta di legno. Evidentemente la cosa deve trasparire dalla mia faccia, infatti Daniel mi tranquillizza: “I nishi tengono accesi i focolari da millenni con maestria, non sono come gli apatani che ogni tanto bruciano le case”. Fatto sta che riusciamo comunque a chiudere gli occhi per qualche ora.

5 febbraio. Yumlam - Itanagar
Verso le quattro di mattina tutto intontito, acciaccato e intirizzito non sento più Silvia al mio fianco, e infatti la intuisco, con stupore, seduta al fuoco che beve un te aromatizzato imbevibile insieme al capo famiglia. La bimba intanto dorme sotto il fucile. Come presa da un sacro fuoco, Silvia lascia la tazza ed esce al buio con la sua Nikon a caccia dellaluce dell’alba. In seguito ammetterà che la luce è arrivata dopo ben un’ora, ma intanto haalmeno vissuto il risveglio del villaggio, con le donne che uscivano a pettinarsi. La luce cremisi delle nevi perenni è impagabile, la gente esce dalle case per andare a lavorare, chi nei boschi a far legna, chi sulla strada a spaccare sassi per conto del governo. La donna sorda per esempio è attesa al campo spacca pietre, dove è pagata, poco, a cottimo. Salutati tutti, scendiamo verso Koloriang entrando nella fitta nebbia mattutina del fondo valle. Qui ci appare come in sogno lungo la strada un uomo in vestiti tradizionali che spacca le pietre. Daniel intanto riceve al cellulare la telefonata di un poliziotto preoccupato per il nostro mancato rientro a Koloriang la sera prima. Arrivati lì, ci fermiamo nella scuola femminile dove studia la sorellina di Daniel, che lui vuole salutare. Ne approfittiamo per dare un’occhiata alle aule, dove il professore, un signore del Manipur, visto che non capita poi così spesso che degli occidentali passino da quelle parti, ci chiede di presentarci brevemente alle alunne, dicendo chi siamo, da dove veniamo, cosa abbiamo visto e cosa dobbiamo ancora vedere dell’India. Le alunne, educatissime, ci ascoltano e ci sorridono. Quando chiedo “Hello! How are you?” mi rispondono in coro come una sola alunna: “Fine, thanks!”. Ma non finisce qui, perché le classi sono quattro, e le insegnanti ci chiedono di presentarci in tutte. Al termine tutte le alunne (saranno un centinaio!) vogliono una a una stringerci la mano augurandoci buon viaggio, ancora incredule del fatto che siamo capitati proprio lì. Dopo le foto di rito, prendiamo decisamente la direzione di Ziro. La strada da fare è tantissima, e ormai è tarda mattina. Ripercorriamo a ritroso il percorso dell’altro giorno, ma lungo la strada si rompe il freno posteriore destro. Con perizia i due nostri lo sistemano in breve, in modo da proseguire il viaggio senza preoccupazioni. Assistiamo anche all’edificazione di una nuova casa in bambù in un villaggio sulla strada, un evento collettivo che coinvolge l’intera comunità. Anche qui destiamo la curiosità del capo villaggio, che ci viene presentato, e delle donne, sorprese del fatto che alla nostra età non abbiamo figli. Arriviamo nei dintorni di Ziro che già fa buio, e la strada per arrivare alla capitale è ancora molta. Ci fermiamo stravolti a Potin, e quello che all’andata ci pareva un buco, ora ci pare una metropoli, tipico effetto relativizzante dei viaggi in luoghi sperduti. Da qui parte, non segnata sulle mappe, una strada in costruzione per la capitale, orribile e sconnessa, e lunghissima. Abbiamo trascorso più di otto ore in auto, ora ce ne attendono altre due su una pista difficile e al buio. Decidiamo di fidarci ciecamente di Kamal, mentre Silvia in preda alla stanchezza inizia a ridere di cose senza senso. Più volte ci pare di finire dentro a un fiume. Dopo varie svolte apparentemente casuali, la strada torna a essere asfaltata, ed entriamo nella periferia di Itanagar, la capitale dello stato, città di difficile interpretazione, un po’ disarticolata. Siamo troppo stanchi per cercare di decifrarla.

6 febbraio. Itanagar – Tezpur
Al mattino passeggiamo nei dintorni dell’Hotel, ma non troviamo proprio nulla di interessante, se non qualche tristissimo mercatino pieno di verdura marcia. La giornata di oggi è solo una tappa di avvicinamento a Guwahati, così ce la prendiamo con calma. Visto che passiamo dalla città della mamma di Daniel, decidiamo di visitare la missione da lei fondata, che accoglie donne in difficoltà e poveri diavoli. Nonostante qualche vezzo da santona, ci pare tutto sommato una buona donna che cerca di dare dignità a povera gente. Con lei lavora la figlia, una ragazza davvero in gamba che ci prepara del riso con le verdure e del the allo zenzero. La signora, che tutti chiamano semplicemente Ma, ci accoglie nella sua casa, in tutto e per tutto uguale alle case tradizionali in bambù dei Nishi, con il fuoco e con le suppellettili in legno. Ci accoglie con semplicità, senza cerimonie. Ci conferma che il suo Daniel è molto chiacchierone, e che è un po’ la pecoranera della famiglia. In effetti ci racconta che a diciassette anni ha quasi ucciso con un coltello un suo vecchio datore di lavoro che non lo voleva pagare, e che è scappato ramingo per i boschi per diversi giorni. Un suo zio lo ha poi convinto a costituirsi, e gli ha evitato il carcere, solo per la clemenza del giudice. C’è il tempo anche per una velocevisita a casa di Daniel, una semplice costruzione in muratura povera ma molto ampia. Qui ci accoglie la sua dolce ragazza, che Silvia scambia per sua cognata. Con loro vive anche una giovane schiava, oltremodo umile. La valle di Itanagar è ormai a ridosso dell’Assam. Il resto del viaggio scorre via veloce nella pianura, tra piantagioni di te, fabbriche di mattoni, ferrovie in costruzione e seggi elettorali. Essendo l’ultima sera con Daniel e Kamal, ceniamo insieme nel ristorante dell’albergo di Tezpur. O meglio nel bar, perché secondo le rigide regole indiane nel ristorante è vietato servire alcolici. Il luogo è piuttosto psichedelico con una fastidiosa luce dominante rossa e la musica alta. Mangiamo un pollo tandoori innaffiato con una birra indiana.

7 febbraio. Tezpur – Guwahati – Kolkata
È ancora buio quando partiamo per Guwahati, dove ci attende l’aereo per Kolkata.Attraversiamo l’immenso fiume Brahmaputra su un ponte stradale, cosa che richiede addirittura una decina di minuti. Dopo un lungo viaggio su un’autostrada a tratti a due carreggiate arriviamo a Guwahati, la città più grande dell’intero nordest, base per tutte leescursioni nella regione, sede di una grande università. Il tempo per una colazione insieme ai nostri due e per dare loro la mancia, e poi ci scaricano nel sorvegliatissimo aeroporto, con il groppo in gola tipico di queste situazioni. Qui rischiamo di perdere il volo per Kolkata perché nello scalo le partenze non sono scritte sui tabelloni, ma vengonosolo annunciate a voce. Dopo aver sorvolato per un’ora il Bangladesh atterriamo nelpomeriggio nella capitale del West Bengal, dove fa decisamente caldo. Un piccoletto con la voce flautata ci attende su un elegantissima vecchia Ambassador che si getta neltraffico della città. Silvia decide che la giornata sarà dedicata a fotografare un “luogo pieno di uccelli” e mi intima di chiedere informazioni in tal senso al piccoletto: io mi rifiuto. Arriviamo nello stesso hotel dove eravamo scesi quattro anni prima (decisamente migliorato nel frattempo, wi-fi gratuito in tutte le stanze, ristorante dignitoso, ambiente pulito). Per fortuna di Silvia l’albergo si trova nei pressi del Mercato Nuovo, un posto pieno di resti di cibo, latrine all’aperto, topi e uccelli. In particolare cattura la nostraattenzione un’area destinata a raccogliere le immondizie di tutta la giornata, dovepascolano maiali, cani e corvi. Gli odori sono particolarmente intensi, e più volte inzuppo le scarpe dentro pozzanghere di liquami, rovinandole per sempre. Dopo mezz’ora di fotografie agli uccelli che si gettano sulle montagne di rifiuti, mi è necessario cambiare aria (Silvia avrebbe continuato per ore). Sull’onda dell’entusiasmo per i massaggi cinesidel nostro ultimo viaggio in Xinjiang, decidiamo di provare anche quelli indiani. La cosa si rivela subito difficile: in albergo non conoscono un luogo per i massaggi, ma ci dicono (è una cosa molto insensata in India dare ascolto a queste indicazioni) che dovrebbe essercene uno in Park Street. Questa strada però è lunga, trafficata, piena di esercizi commerciali di ogni genere, ma di centri massaggi neanche l’ombra. Chiediamo a unatrentina di persone, scelte tra le più affidabili (vigilesse, titolari di negozi, guardie private, taxisti), ma ci danno tutte informazioni vaghe e contraddittorie. Solo la nostra immensa ostinazione fa sì che non ci scoraggiamo. Seguiamo infine le indicazioni di un negoziante di antiquariato, che ci manda in un quartiere elegante poco lontano pieno di negozi di tipo occidentale. Il centro che troviamo è pulito e piacevole, ma i massaggi non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli cinesi. Dopo una cena da Pizza Hut rientriamo in albergo.

8 febbraio. Kolkata – Varanasi – Allahabad
La giornata odierna è dedicata al trasferimento verso Allahabad, la città del Maha Kumbh Mela. Prendiamo un volo per Varanasi, che curiosamente fa prima scalo a Lucknow,capitale dello stato dell’Uttar Pradesh e situata molto più a ovest di Varanasi, così che da12
lì l’aereo deve tornare indietro per arrivare a destinazione. A Varanasi ci attende una Tata Indigo guidata da un ruspante autista non anglofono, che ci porta fino ad Allahabad. Ci accordiamo però prima con il suo capo per decidere a che ora verrà a riprenderci il giorno 11. L’autista ha l’abitudine sgradevole di aprire la portiera in corsa per sputare sullastrada. Il viaggio prosegue comunque pigramente nella campagna fino a che non finiamo imbottigliati in una coda dovuta pare a un incidente. Svicoliamo su stradine di campagna, imbottigliandoci però ancora di più dal momento che tutti hanno avuto la nostra stessa idea, tanto che siamo costretti a una manovra azzardata per tornare indietro sospesi tra un canale e un piccolo dirupo. L’autista borbotta contrariato. Alla fine riusciamo a tornare sulla strada principale in un punto senza più coda. Ci fermiamoa mangiare in una bettola, e qui entriamo nell’atmosfera del Mela: arrivano diversisantoni che ci guardano con espressioni seducenti e misteriose. Il Kumbh Mela è letteralmente la festa del vaso, il cui contenuto – il nettare dell’immortalità – Shiva ha versato sulla terra in quattro punti. Il punto più propizio di tutti è proprio ad Allahabad, più precisamente nel Sangam, la sacra confluenza fra tre santi fiumi indù (la Ganga, laYamuna e l’immaginario Saraswati). La festa si celebra ogni 3 anni, e per il fatto che le località sono quattro, in ciascuna località si celebra ogni 12 anni. Il periodo preciso viene stabilito in base al sole e ai pianeti. Durante la festa ci sono alcuni giorni propizi per i sacri bagni nel fiume, che ogni buon indù desidera compiere per purificarsi dai peccati e liberarsi dal ciclo delle rinascite. Il numero di pellegrini che visita il Mela è veramente impressionante, e ogni anno incrementa (si parla di 40-50 milioni di persone nel corsodell’ultimo, celebrato nel 2010), e comunque di gran lunga il più frequentato è sempre quello di Allahabad. Noi siamo in possesso semplicemente di una cartina della città, con la divisione in settori, ciascuno dei quali ospita diversi accampamenti tendati per i pellegrini. Sentiamo di essere di fronte a qualcosa di mostruosamente disorganizzato e caotico: non sappiamo esattamente dove saremo alloggiati e come si svolgeranno le celebrazioni. Prima di partire avevamo anche provato a capire quale fosse il settoreoccupato dai santi fra i santi, i naga sadhu (i santi nudi), la vera attrazione dell’evento,cercando anche di ottenere dei permessi particolari presso il consolato indiano di Milano, prendendo inutili contatti con un certo Max, sedicente collaboratore del console. Dopo febbrili mail da parte mia senza alcuna risposta, abbiamo anche contattato un fotografo autore di libri sul Kumbh Mela, Giuliano Radici, per chiedere lumi su come comportarci, e lui in tutta risposta, stiracchiando le parole: “Ma noooo, ma godeetevelo, non preoccupatevi di avere i permessi, godetevelo così com’è”. All’aeroporto di Delhi abbiamoanche provato a prendere contatti con l’ufficio immigrazione per un fantomatico permesso, ottenendo solo alzate di spalle e scuotimenti di testa. Le notizie lette su internet ci inquietavano: si parlava del famigerato settore 3, alloggio dei naga sadhu, chiuso al pubblico e sorvegliato dall’esercito a causa dei comportamenti “immorali” deisadhu. In questo clima di incertezza totale ci avviciniamo alla città all’imbrunire. Quandoci troviamo a pochi chilometri dal Sangam, come è naturale finiamo imbottigliati in un gigantesco ingorgo dove non si procede che di qualche centimetro all’ora. La città infatti è chiusa completamente al traffico nei giorni della festa. In coda veniamo anche tamponati da un grosso camion. Gente arriva da ogni dove, a piedi, in moto, su carretti, in auto, su camion. Dopo qualche ora l’autista riesce a parcheggiare l’auto in un punto non troppo lontano dal nostro campo tendato. Bagagli in mano lo raggiungiamo, e con sorpresa constatiamo che si tratta di un campo attrezzato per occidentali – molti italiani – con angolo reception dotato di wi-fi, tende da due posti ampie e spaziose e dotate di bagno privato. C’è anche una grande tenda ristorante. Qui ritroviamo, indaffaratissimo, la nostra guida di Delhi, Mamlesh, un ragazzo giovane e dinamico che si fa in quattro per i propri clienti e che ci consiglia di alzarci prestissimo l’indomani per vedere le sacreabluzioni. Abbiamo tempo prima di andare a dormire di provare un massaggio rilassante in una tenda allestita allo scopo. Il problema è che i due massaggiatori sono imbronciati e poco amichevoli, il massaggio è pessimo e condotto con una strana macchinetta vibrante, nella tenda c’è freddo e un fetido odore di piedi. Silvia si rifiuta di spogliarsi.Come se non bastasse mi ungono i capelli con una sostanza che mi verrà via solo dopo tre giorni. Durante tutta la notte si sentono distintamente provenire dalla città canti e suoni.

9 febbraio. Allahabad
È ancora buio quando mezzi intontiti usciamo dal campo seguendo la folla. In breve arriviamo nei pressi della riva dell’immenso Gange (lì per lì non sappiamo se sia il Gange o lo Yamuna), e da qui proseguiamo per un paio di chilometri costeggiandolo. Man mano che procediamo la folla di pellegrini si ingrossa. Grazie al fiume riusciamo a orientarci e a dirigerci verso la sacra confluenza, il Sangam. C’è gente dappertutto, in alcuni punti lestrade si incrociano e per passare bisogna fare un vero e proprio bagno di folla. La temperatura è fredda, gli altoparlanti urlano cantilene sacre, dappertutto sono allestiti campi tendati dove la gente mangia, prega, dorme. Preso un sacrosanto te caldo da un venditore ambulante, arriviamo finalmente alla riva melmosa, e spingendo un po’ riusciamo quasi a lambire l’acqua. La gente attende il sorgere del sole per entrare nelle acque gelide. Tutti hanno molto freddo, ma non esitano a bagnarsi, quasi nudi con lapelle che freme al contatto con l’aria. Il rito prevede tre immersioni complete, una sosta meditante nel fiume, e l’affidamento alle acque di una fogliolina con sopra una candela o dei fiori, oppure lo spargimento di latte. Con raccapriccio vediamo un occidentale inacqua, con gli stivali da pescatore, che scatta foto all’impazzata. Ricordo di aver letto che il Gange è uno dei fiumi più inquinati del mondo, e che gli occidentali non hanno gli anticorpi per permettersi un bagno lì. Proseguiamo tra la folla, scoprendo che molta gente si taglia i capelli prima di entrare in acqua, e che molti altri si accucciano per fare i bisogni incuranti delle migliaia di persone intorno. Anzi, pare proprio che alcune zone vicino al fiume siano espressamente deputate a tali scopi. Curiosamente alcune donne attraversano la folla legate le une alle altre, per non perdersi nel marasma. Il sole sorge e poi si leva alto nel cielo, scaldando l’aria. L’area del Sangam è enorme, c’è gente dappertutto, anche sulle altre rive di questo gigantesco triangolo d’acqua. Diversi ponti galleggianti (chiamati pontoon), ne contiamo una decina, attraversano i fiumi. Per fortunal’organizzazione ha ben pensato che l’attraversamento sia a senso unico, per evitarepericolosi ingorghi. In lontananza si scorge un enorme ponte stradale e ferroviario sostenuto da altissimi piloni, che fa da sfondo al paesaggio. Il Gange proviene da nord ovest e si unisce allo Yamuna che proviene da ovest. Sotto i galleggianti le acque scorrono veloci e profonde. Le aree per il bagno sono ben delimitate da cordoni, per evitare che i pellegrini vengano portati via dalla corrente. La gente aumenta di ora in ora, per strada ci sono molti vigilantes che teneramente cercano di organizzare il traffico fischiando a più non posso. Davanti ai nostri occhi una vera galleria di tipi umani: storpi che camminano sulle mani chiedendo la carità; donne che a due a due asciugano i sari al sole stendendoli con le mani; bambine con in mano il tridente di Shiva e con la parrucca, un trucco pesante e tutte agghindate a festa; donne che mostrano orrende piaghe purulente; uomini che si tagliano i capelli fra di loro; anziane che cantano inni religiosi; venditori di strana frutta. Nel nostro girovagare meravigliato finiamo per attraversare il fiume e arrivare nel famigerato settore 3, anche se di naga sadhu nemmeno l’ombra. Ci rendiamo però conto di essere arrivati nell’accampamento desantoni che contano, perché è un luogo sorvegliatissimo dall’esercito, che è schierato in piene forze. Improvvisamente sbuca dalla folla un cicciotto a sedere nudo che cammina tranquillamente in mezzo ai soldati annoiati. Temiamo non ci facciano entrare nell’ashram, il luogo di meditazione, ma ci basta fare una faccia un po’ umile e supplichevole per ottenere uno stanco gesto di via libera da parte della guardia all’ingresso. Qui è tutto un pullulare di tende dove dimorano santoni, baba e guru, di ogni tipo. Ce ne sono anche di famosissimi, scortati dalla polizia con il mitra. Nella cultura indù chiunque può autoproclamarsi santone, non c’è bisogno di studi o di riconoscimenti pubblici. Ovviamente ci si aspetta che poi costui compia una vita ascetica fatta di rinunce (a volte anche estreme) e di meditazione. Nella prima tenda in cui entriamo abbiamo già una bella visione: tre guru (vestiti) seduti, i due ai lati ben pasciuti con la faccia furbissima e vagamente mascalzona e quello in mezzo più giovane magrissimo con la faccia buona. Quello giovane ci accoglie con la mano destra alzata,  fino a che Silvia mi fa: “Ma perché non l’abbassa?”. Allora io insospettito chiedo, con voce umile e devota: “Quanto tempo è che questo sant’uomo ha la mano alzata?”. E in tutta risposta: “Dieci anni”. In effetti il braccio è anchilosato, filiforme, e le unghie sono lunghe, nere e arcuate come degli artigli. Un bambino apprendista santone, tutt’altro che devoto e anzi un po’ strafottente, ci dipinge sulla fronte il Tilak, il puntino rosso tipico indù, come gesto bene augurante. Il santone di sinistra cerca di far dire a Silvia, con esiti comici, il mantra sanscrito Auṃ namo Nārāyaṇaya, che è un invocazione a Visnu. Arrivano pellegrini devoti che si inchinano davanti ai tre e lasciano loro delle rupie in cambio di una distratta benedizione. Ci offrono del te e ci permettono di sostare con loro per un po’.Nel nostro successivo girovagare veniamo a contatto con i veri e propri naga sadhu, i più aggressivi e i più ricercati tra i santi. Costoro girano per l’India completamente ignudi cosparsi di cenere, con qualsiasi tempo e a qualsiasi ora. Sono un ordine marziale devoto a Shiva, vivono di carità e fumano la Ganja, cioè la marijuana. Sono circondati da assistenti e da guardie del corpo, e sono famosi per compiere gesti estremi. Uno di loro, abbastanza giovane, per esempio è lì che si arrotola il pene su un bastone, facendogli compiere un paio di giri e poi sedendocisi sopra. Per assistere allo spettacolo vuole almeno 500 rupie. Ci benedice cospargendoci la fronte di cenere. Se qualcuno gli dà noia, basta un cenno al suo assistente, e questi lo scaccia via in malo modo dalla tenda. Stanchissimi, rientriamo al campo per mangiare qualcosa, e qui decidiamo di non uscire ancora sotto il sole ma di aspettare il tramonto. Così dormiamo un paio di orette, per tornare poi sulle rive del fiume nel momento in cui le donne asciugano i veli sotto la sognante luce dorata di quell’ora. Con il conta passi misuriamo di aver camminato per 30chilometri avanti e indietro per la città, e ora della fine i chilometri percorsi saranno quasi 50 in due giorni. Col buio rientriamo alla base, sicuri di doverci alzare presto la mattina dopo per assistere al bagno reale, la data più propizia da 12 anni a questa parte per purificarsi. Ma alla reception c’è un gran subbuglio, e le informazioni sull’indomani sono le più disparate: c’è chi dice che bisogna alzarsi alle quattro per poter vedere la processione dei santi nudi, chi dice alle due, chi dice che bisogna partire alle dieci (cioè praticamente adesso, rinunciando a dormire), altrimenti si rischia di non vedere nulla. Siamo stanchi e doloranti ma dopo una breve consultazione, pur nauseati alla sola idea di non dormire e di rimetterci in cammino, ci mettiamo in marcia, per non correre il rischio di non assistere alla processione.

10 febbraio. Allahabad
Non c’è praticamente differenza di folla tra il giorno e la notte, l’afflusso è costante econtinuo. Decidiamo, in assoluta autonomia perché nessuno è in grado di darciindicazioni precise, di avvicinarci al settore 3 dall’altra parte del fiume e di aspettare lì gli eventi. Il primo problema è quello di andare in bagno, ma lo risolviamo all’indiana,trovandoci a camminare su una gigantesca e sovrumana latrina, peraltro dalla quale si levano odori nauseabondi. Il secondo problema è il freddo, molto pungente e accentuato dalla stanchezza. Il terzo problema è quello di tenere gli occhi aperti. Per nostra fortuna un giovane vigilantes oltremodo incuriosito da noi si avvicina, con i suoi amici piuttosto male in arnese, e con un discreto inglese inizia a farci varie domande, così da tenerci svegli: dove alloggiamo, se ci piace l’India, che lavoro facciamo, quanto guadagniamo, se siamo su Facebook o su Twitter, se siamo sposati (a questa domanda rispondo sempre di sì, per evitare a Silvia attenzioni non volute). Lui guadagna circa 300 euro al mese, ed è un ottimo stipendio, visto che riesce a risparmiarne quasi 200. Ci avvisa di non accettare mai la ganja dai santoni, poiché in India si rischia il carcere (fino a dieci anni!) per il possesso di sostanze stupefacenti, ma ci dice anche che nessuno obietta qualcosa se la possiedono i santoni, perché “noi siamo religiosi e li rispettiamo”. Però aggiunge ancheche ben pochi in India sanno la verità su di loro. “Anche gli stessi miei amici” dicealludendo ai suoi colleghi lì presenti che non capiscono l’inglese, “non sanno che isantoni sono le persone più ricche dell’India, hanno tutti dei grossi SUV parcheggiati dietro le tende e pagano delle guardie del corpo”. Come accade spesso in India, mentre il giovane ci parla, si forma un capannello di persone oziose intorno a noi. Ogni tanto si allontana per fischiare al traffico umano o per dare indicazioni ai baba di passaggio. In uno di questi momenti ci si avvicina un tipo magrissimo con gli occhiali, sulla settantina, la barbetta, un buffo berretto di lana e una giacca a vento gialla. Inizia a discorrere con me di yoga e di Krishnamurti (“J. non G.U., mi raccomando!”). Capisco che i giovani lo prendono in giro, ma essendo una specie di baba lo rispettano. Silvia indispettita dalla sua presenza mi chiede di non dargli corda, ma io lo trovo tenerissimo. Quando lo chiamo baba lui quasi si offende: “non sono un baba! Questa non è religione, è folklore!”. Improvvisamente ci chiede: “Quanti anni ho, secondo voi?” e si mette a eseguire mosse dipugilato agilissime, con nostro stupore. “Ne ho più di settanta, non sembra eh?”.Capendo che Silvia soffre per il freddo ci insegna delle tecniche yoga per scaldarci, mentre dietro dei ragazzi gli fanno il verso. Quando il freddo diviene insopportabile, gli porgo uno scaldamani chimico. Lui lo guarda, sorride e lo lascia su una panchina,dicendo che l’uomo non ha bisogno di queste cose. “Il baba certo sa molte cose”commenta ironico il vigilantes, che si allontana ancora perché nel frattempo riceve la visita ispettiva dei suoi superiori. Noi molto infreddoliti ci uniamo a un gruppetto che si scalda al fuoco, e il baba ci segue come un cagnolino. Tutto intorno sembra un gigantesco campo profughi, con gente ammassata dappertutto. Passano anche deglioccidentali, e il ritornello è sempre lo stesso: “Ma voi sapete dove passeranno i naga sadhu? A noi hanno detto che passeranno da qui! Ah si, e voi credete a quello che dicono? Auguri!”. Verso le due, la via principale di questo settore inizia a popolarsi di persone, sempre di più, fino a che diventa incontrovertibile che si stia preparando una grande processione in direzione del fiume. Restiamo intrappolati in un angolo mentre arrivano addirittura dei carri allegorici (in tutto simili a quelli del nostro carnevale), con sopra guru e baba, spesso bene in carne, e sotto fedeli urlanti e inneggianti. Con il nostro baba al seguito, ci troviamo nel mezzo della strada, e assistiamo con stupore divertito alla sfilata di una ventina di carri. Improvvisamente, dopo un momento di calma, mentre è ancora buio pesto, sbuca dal nulla un manipolo di soldati armati tutti di corsa, che hanno un’espressione oltremodo allarmata e che urlano alla gente di spostarsi ai lati, con molta foga. Si sta preparando qualcosa di importante: dopo pochi istanti arrivano loro, i naga sadhu, scalmanati e urlanti pure loro, completamente nudi, con delle corone di fiori arancioni al collo. Alcuni di loro hanno in mano il tridente di Shiva, alcuni sono addirittura a cavallo. Tutti gridano mantra, alcuni fumano la ganja. Non è possibile stare loro davanti: sono loro che per antichissima usanza hanno il diritto di fare il bagno per primi. Tutto il popolo si lancia dietro ai sadhu, e noi con loro. A tratti la processione prosegue veloce, quasi frenetica, a tratti si ferma. Nei momenti in cui non si procede cedo i miei scaldamani a pellegrini mezzi nudi che tremano dal freddo. Non sappiamo quanto disti da noi il fiume, ma è ogni momento più chiaro il nostro dilemma: se restiamo nella folla o verremo travolti oppure finiremo nel fiume. In questo parapiglia, sento distintamente il nostro baba dietro di noi che continua con i suoi ragionamenti filosofici assolutamente fuori luogo: “Robert, il tempo non esiste, è solo una finzione... Con olimpica calma ci dice anche: “secondo me è pericoloso restare qui, cerchiamo di uscire verso sinistra”. Lo guardo e lo amo. Il percorso più avanti viene delimitato da alcune transenne che rendono ancora più angusto il passaggio. Decidono di far passare davanti alcuni carri allegorici, la qual cosa crea dei momenti di forte pressione e tensione. Pur non sapendo quello che sarebbe successo quello stesso giorno alla stazione (decine di morti schiacciati nella ressa), la prudenza ci consiglia di ascoltare il baba e fuoriuscire aogni costo dal percorso, e con un po’ di fatica alla fine ci riusciamo. Non possiamo in questo modo vedere il luogo e il momento del bagno dei sadhu, ma le scene a cui abbiamo assistito compensano ampiamente. Salutiamo il caro baba che ci ha tenuto compagnia quasi tutta la notte, mentre il sole comincia a sorgere. Lui si chiama Kiran (“raggio di luce”) e viene dal poverissimo stato del Jharkhand. Ci trasciniamo ancora per ore lungo le strade del Kumbh Mela, trovando banchetti che distribuiscono gratuitamente cibo ai pellegrini, santoni spossati che dormono al sole gettati per terra come dei sacchi, ricoperti di riso e di rupie, moltitudini che si bagnano nel fiume. Percepiamo che tutto è così magico e arcaico – nel senso di antico ma anche “vicino al principio” – e un po’ di commozione prende il sopravvento, mentre il sole tramonta sull’andirivieni di milioni di pellegrini.

11 febbraio. Allahabad – Varanasi
I restanti giorni sono solo dedicati al lento ritorno verso l’Italia. Da notare che la mattina dell’11 non è assolutamente chiaro chi verrà a prenderci per portarci a Varanasi e soprattutto quando. Allahabad è chiusa al traffico e ci dicono che l’auto mandata aprenderci è ferma in coda da oltre due ore. La prospettiva di stare al campo tendato tutto il giorno ci fa un po’ spazientire, ma nella nostra medesima situazione sono un po’ tutti gli ospiti. Dopo un’ora di febbrili trattative, compare per magia una grossa auto che ci carica e ci porta fuori dalla città passando per stradine di campagna evitando la strada principale. Da lì a un paio d’ore siamo a Varanasi. Per puro caso (questa è una cosa in effetti incredibile), sbirciando alcuni passaporti sul tavolo della reception mentre effettuiamo il check in all’hotel, scopriamo che vi è anche quello del grande fotografo americano Steve McCurry, evidentemente ospite anche lui della struttura, la qual cosa destabilizza Silvia, che vuole assolutamente incontrarlo. Nel pomeriggio visitiamo la città vecchia, assillati da barcaioli importuni. Lo spettacolo del fiume che compare varcata la porta di un Ghat (scalinata che porta al fiume) è comunque assolutamente impagabile. Su una riva è adagiata la città, mentre sull’altra c’è il nulla. Saliamo su una barca, visitiamo alcuni Ghat, tra cui quello delle cremazioni e quello della puja serale. Al termine della visita, sul risciò che ci riporta in albergo prendo freddo tanto che da lì a poco mi ammalerò. Silvia chiede in reception il numero di stanza di Steve e gli lascia sotto la porta un biglietto con una domanda di carattere generale sulla fotografia (e il proprio numero di stanza, al solo scopo di ottenere una qualche risposta).

12 febbraio. Varanasi – Delhi
Al mattino, dopo un massaggio non memorabile presso la spa dell’albergo, per ben due volte siamo tentati di identificare Steve in altrettanti ospiti dell’albergo (in effetti non ricordiamo bene che aspetto abbia). Il primo lo scartiamo perché pur avendo il fisique du role del fotografo affascinante, si perde litigando con un cameriere perché non gli aggiustano la fibbia della cintura. Il secondo, pur avendo con sé un portatile e diverse valigie, lo scartiamo perché assolutamente sfigato. Ormai prossimi a partire per l’aeroporto, quasi come in sogno lo vediamo uscire dall’ascensore con la moglie scurissima in volto (non sarà mica per il bigliettino di Silvia della sera prima?) attraversare la hall in cinque secondi netti, infilarsi velocemente in un auto già pronta, e sparire per sempre alla nostra vista.

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